Il Politecnico di Milano ha calcolato quanto variano le performance aziendali in relazione al surriscaldamento globale. Eppure fatica a diffondersi una cultura di questo genere di rischio e gli imprenditori restano sotto-assicurati: secondo Aiba oltre la metà delle Pmi non si assicurerebbe contro il Covid
Fonte: Articolo pubblicato su Repubblica.it il 03.05.2021
MILANO – Il cambiamento climatico costa caro alle imprese. Soltanto nel 2018 sono mancati ricavi per 133 miliardi alle aziende italiane. E un evento atmosferico straordinario, come un’alluvione, può costare fino al 4% di affari alle ditte dell’area interessata. Eppure gli imprenditori italiani faticano a familiarizzare con questi rischi e, di conseguenza, restano sotto-assicurati.
Il riscaldamento globale nemico degli affari
A gettare una luce su cosa comporti il surriscaldamento del pianeta per gli affari è stato uno studio presentato nei giorni scorsi dal Politecnico di Milano, che ha inaugurato, con la sua School of Management, l’Osservatorio Climate Finance. Nel rapporto di debutto, l’Osservatorio si è concentrato sull’incrocio dei dati di bilancio di oltre 1 milione di imprese – tra il 2009 e il 2018 – con il database metereologico.
Il risultato dell’analisi statistica è che in dieci anni un grado in più di temperatura ha determinato una riduzione media di fatturato e redditività per le imprese italiane pari rispettivamente a -5,8% e -3,4%. Se poi si considerano le variazioni effettive del clima nelle varie aree geografiche, nel solo 2018 – anno particolarmente caldo – il nostro tessuto imprenditoriale ha registrato mancati ricavi per 133 miliardi di euro, con le maggiori perdite percentuali al Nord Est e al Centro, si legge nella sintesi dei risultati. La vasta mole di dati a disposizione ha permesso ai ricercatori di verificare l’impatto anche nel dettaglio dimensionale delle aziende, e per settore di appartenenza. La fotografia che ne emerge dice che le piccole imprese sono quelle che più hanno perso in redditività (-4%, a fronte del -5,3% di fatturato), mentre le grandi realtà, potendo meglio agire sui costi e sui processi, nonostante una diminuzione di ricavi e di domanda pari quasi al triplo (-14,6%), hanno contenuto la perdita di marginalità a -3,6%.
Tra i settori le costruzioni (fatturato a -16,2%, Ebitda a -6,8%), la finanza (-11,8% e -5,9%), che ha subìto un impatto sia diretto che indiretto attraverso i danni alle imprese clienti, e le estrazioni (-10,4% e -7,6%) hanno patito i maggiori contraccolpi dall’aumento della temperatura. L’information technology, il real estate e la ricerca e innovazione hanno visto lo stesso calo di fatturato (-6,4%) a fronte però di una diminuzione della marginalità ben differente (rispettivamente -6,8%, -4,6% e -3%). Il manifatturiero (-5,2% di fatturato e -2,4% di Ebitda) e il retail (-4,5% e -3,1%) sono i settori che si sono meglio difesi, preceduti solo da agricoltura, turismo e trasporti che, scarsamente impattati, hanno contenuto entrambi gli indicatori entro il -3%.
Vincenzo Butticè, vicedirettore dell’Osservatorio, spiega che nell’indagine è stata utilizzata una metodologia che consente di depurare i risultati di tutte le caratteristiche ‘fissè dell’impresa: settore, dimensione, qualità. In modo da correlare la performance economica solo ed esclusivamente alla variabile climatica. Certificato il nesso causa-effetto, l’Osservatorio si ripropone di studiare negli anni a venire i meccanismi nel dettaglio. Perché, cioè, il caldo è nemico degli affari? “La letteratura già offre alcune risposte: il tema maggiore riguarda la perdita di produttività, perché a parità di input con il caldo l’output si riduce“, spiega il docente. “C’è poi un tema di adattamento al cambiamento climatico: ci sono comparti, come l’agricoltura, dove la consapevolezza del problema è radicata ormai da tempo e ci si adatta con colture più resistenti. Anche l’energia è un settore che da tempo ha presente il cambiamento climatico. Per costruzioni e finanza, invece, siamo un passo indietro”. Le ipotesi che avanza Butticè è che nelle costruzioni si soffra particolarmente perché temperatura e domanda sono inversamente proporzionali; mentre per le banche, c’è un mix di riduzione di domanda dei servizi finanziari e un effetto dato dalla peggiore performance delle imprese, che si riflette sull’attività delle banche.
Presentando il lavoro, Roberto Bianchini, direttore dell’Osservatorio Climate Finance ha rimarcato come “la gestione delle conseguenze del cambiamento climatico e le strategie di mitigazione rappresentano la maggiore sfida che le economie mondiali dovranno affrontare nel corso nei prossimi anni”. L’analisi “mostra come un’alluvione possa costare alle aziende del territorio colpito fino al 4% di fatturato e una perdita di valore degli attivi di bilancio di circa lo 0,9%, che sale all’1,9% nel caso di un incendio di vaste proporzioni. Anche l’emergenza mondiale legata alla pandemia ha contribuito ad aumentare la percezione del rischio, perché ha mostrato come gli attori economici subiscano conseguenze non solo in modo diretto, ma anche indiretto, attraverso i canali della domanda, dell’offerta o della propria catena di approvvigionamento”.
Ma più della metà delle Pmi non si assicurerebbe, neanche contro il rischio pandemico
Se il rischio legato a cambiamento climatico ed eventi catastrofici pare evidente, una diversa indagine presentata da Aiba – Associazione Italia brokers di assicurazioni e riassicurazioni – in occasione del recente convegno annuale certifica che questa consapevolezza non si è fatta strada nelle piccole e medie imprese del campione, rappresentativo dell’ossatura del tessuto produttivo italiano. Neppure il Covid ha smosso più di tanto la situazione: “Dall’indagine emergono dati eclatanti e preoccupanti sulla scarsa cultura del rischio e fiducia nel sistema assicurativo: anche se viviamo ormai da un anno e mezzo una crisi senza precedenti dovuta all’emergenza sanitaria, ben il 40% delle imprese intervistate ritiene di non essere esposta al rischio pandemico e quasi il 51% dichiara che non si assicurerebbe per questo rischio. La motivazione principale (32%) è la speranza di non subire un danno”, dice la ricerca. E, per venire ai dati più direttamente osservati dal Politecnico, quasi 1 azienda su 2 del campione non si percepisce come esposta ai rischi catastrofali e non è assicurata per questi rischi. Non solo, più di 1 su 3 non effettua nessuna azione per gestire il rischio catastrofale. Non a caso, l’Italia ha – secondo Swiss RE – il primato del maggior deficit di protezione per le calamità naturali in Europa, con solo il 3,2% delle perdite assicurato. Meno del 10% degli intervistati pensa che il climate change sia causa di possibile interruzione del business.
Perché questo quadro, che fa a pugni con le evidenze scientifiche? Luca Franzi, presidente di Aiba, fa risalire gran parte di questi problemi “a una endemica diffidenza tra italiani e assicurazioni: non sono partner strategici”. Se l’italiano in questione è un imprenditore, poi, affronta la spesa assicurativa “solo in un’ottica orientata al minimizzare i costi, manca una cultura della prevenzione associata a quella della protezione, che sono un binomio inscindibile e non alternativo”. E se il problema è tanto radicato, parte della ragione sta anche nel lato dell’offerta “che si è adeguata a una domanda involuta”. Franzi non ha problemi a indicare “in polizze di decine di pagine, incomprensibili anche agli addetti ai lavori” un sintomo tra l’industria e i potenziali interessati alle protezioni. Così come “la competizione spostata sul piano dei costi fa sì che sul mercato scarseggino i prodotti assicurativi in grado di rispondere alle reali esigenze degli imprenditori”. Invece, il mercato assicurativo “dovrebbe essere più innovativo per far sì che il ricorso alla copertura assicurativa diventi anche un modo per dare stabilità economica a tutto il Paese”.